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Paola Cosentino

Machiavelli e il Discorso o dialogo: teoria e prassi dell’intreccio comico

11. Nel corso del Novecento, il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua è stato oggetto di un’estenuante diatriba fra gli studiosi, impegnati a dimostrarne (o a negarne) la paternità machiavelliana. In questi ultimi anni, infatti, da un lato, Cecil Grayson (1971) e poi Mario Martelli (1978) eccepivano sulla natura di un testo che conteneva una serie di riflessioni sulla lingua e sulla poesia difficilmente concepibili all’epoca del Segretario, dall’altro, Carlo Dionisotti (1975), seguito da Fredi Chiappelli (1974) e poi da Ornella Castellani Pollidori, curatrice della prima, significativa edizione critica dell’operetta (1978), stabilivano che, non essendoci alcuna prova capace di inficiare l’attribuzione del trattato alla penna di Niccolò, peraltro supportata dalla testimonianza del figlio Bernardo, ci si doveva comunque attenere alle pur scarse testimonianze positive in nostro possesso. Di recente, anche grazie al risolutivo intervento di Paolo Trovato, editore di una nuova e definitiva edizione (1982), si è preferito tenere conto soprattutto dei tre manoscritti conservati, ove appunto Machiavelli compare come autore dell’opuscolo1.

2Ma di quale opzione linguistica questo testo si fa promotore ? In prima battuta, il Dialogo si scaglia contro coloro che si dicono convinti dell’italianità del volgare2, formato da elementi comuni ai vari dialetti della penisola : secondo l’autore, la lingua « nella quale hanno scritto i nostri poeti e oratori »3 è soprattutto fiorentina. Ne dà prova il necessario rinvio al toscano da parte di tutti coloro che debbono impiegare nuovi termini oppure adattare i loro vocaboli alle forme della tradizione. Del resto, proprio nella parte finale del Dialogo, vengono evocati quei « sali »4 propri dei diversi idiomi cui è opportuno ricorrere nella composizione di una commedia, per renderla capace di docere ma anche di delectare. All’interno di un breve trattato che nasce a partire da una polemica linguistica è dunque agevole riconoscere anche una sezione specifica dedicata al teatro comico, la cui riuscita è strettamente collegata all’impiego di una lingua viva, ovvero mobile, moderna e capace di suscitare ilarità.

3Machiavelli, però, non si ferma qui : il suo discorso si allarga a considerare la natura più generale di un testo comico, come non aveva mancato di sottolineare Carlo Dionisotti, che, nel passo qui preso in esame, aveva riconosciuto una vera e propria « storia del teatro italiano »5, esemplata sui « moduli drammaturgici diffusi nella cultura umanistica »6 ed evidentemente ripresi durante le celebri conversazioni oricellarie7. Leggiamo direttamente il Dialogo :

Dico ancora come si scrivano molte cose che, senza scrivere i motti e i termini proprii patrii, non sono belle. Di questa sorte sono le commedie ; perché, ancora che il fine d’una commedia sia proporre uno specchio d’una vita privata, nondimeno il suo modo del farlo è con una certa urbanità e termini che muovino riso, acciò che gl’uomini, correndo a quella delettazione, gustino poi l’esemplo utile che vi è sotto (par. 63)8.

4Lo scrittore definisce la commedia quale « specchio d’una vita privata », in questo seguendo letteralmente un’espressione ricavata dal trattato De comoedia attribuito a Donato, e, in origine, assegnata a Cicerone, cui si erano rifatti tutti gli umanisti e pure gli autori di testi comici all’inizio del Cinquecento (scrive Lorenzo Strozzi o, secondo le recenti acquisizioni di Pasquale Stoppelli, lo stesso Machiavelli, nel prologo della Commedia in versi : « Ch’altro non è comedia ch’uno spechio / di vita », v. 63-64)9. Ancor più interessante, in questo contesto, sembra essere l’evocazione della categoria dell’« urbanità » : essa mette in relazione il linguaggio – qui, evidentemente, arguto – e il comportamento elegante, quindi mai sguaiato o licenzioso, secondo un’idea già formulata nel De sermone di Pontano, sulla falsariga di Orazio, e poi ripresa nel prologo della Clizia a proposito della rappresentazione comica (« e possonsi tutte queste cose [ovvero l’avarizia, il furore, la gola ecc.] con onestà grandissima rappresentare »)10. La commedia urbana impiega termini in grado di stimolare il riso, proprio perché è attraverso il riso che gli uomini provano piacere e, senza accorgersene, fanno tesoro del messaggio morale nascosto sotto il velo delle parole11.

5Continuando il suo discorso, Machiavelli fa poi riferimento all’impossibile « gravità » dei personaggi del testo comico, dal momento che in esso si muovono figure quali quelle del « servo fraudolente », del « vecchio deriso », del « giovane impazzato d’amore », della « puttana lusinghiera », infine del « parasito goloso »12. Questa gamma variegata di tipologie umane porta delettazione e, insieme, giova all’utile di tutti coloro che assistono alla messa in scena. Da un lato, il linguaggio comico, dall’altra i protagonisti: tutto contribuisce a potenziare l’effetto faceto cui seguiranno i necessari, quanto edificanti, effetti.

6Sullo sfondo del passo sono riconoscibili diverse fonti : Terenzio, Ovidio, Orazio e, appunto, ancora Donato, autore del commento alle commedie dello stesso Terenzio (fra cui figurava l’Andria, che il Segretario fiorentino aveva tradotto). Il testo del grammatico latino, scoperto da Giovanni Aurispa nel 1433, fu ampiamente utilizzato e talvolta ripreso alla lettera ; epperò un maggiore peso ebbe, per Machiavelli, la pubblicazione di un nuovo e più significativo commento moderno dovuto a un frate benedettino francese, conosciuto attraverso il nome latino di Guido Juvenalis e ripreso nelle due edizioni veneziane di Terenzio del 149413. Le glosse di quest’ultimo furono di grande importanza per la composizione della Mandragola come della Clizia, soprattutto sul fronte del lessico, che diventava il mezzo per sperimentare forme antiche in abiti moderni.

7Ma, sull’elenco dei personaggi, è bene indugiare ancora un poco. Nella prefazione all’Heautontimorumenos14, Terenzio presenta una lista composta da un servus currens, un iratus senex, un edax parasitus, elenco che potrebbe essere divenuto il punto di partenza per il testo della Mandragola (dove, in una sequenza leggermente mutata, si legge di « un amante meschino,/ un dottor poco astuto,/ un frate malvissuto,/ un parassito di malizia il cucco »)15 come della Clizia,nel cui prologo Machiavelli scrive :

Giova veramente assai a qualunque uomo, e massimamente a’giovanetti, cognoscere l’avarizia d’un vecchio, il furore d’uno innamorato, l’inganni di un servo, la gola d’un parassito, la miseria d’un povero, l’ambizione d’un ricco, le lusinghe d’una meretrice, la poca fede di tutti gli uomini16.

8Balza immediatamente in primo piano la somiglianza fra i due esordi machiavelliani, che, in entrambi i casi, evocano un giovane amante (amante meschino, in un caso, il furore di un innamorato, nell’altro), un vecchio (un dottor poco astuto/ l’avarizia d’un vecchio), un parassita (di malizia il cucco/ la gola di un parassito), a loro volta strettamente legati alle tipologie evocate nel trattatello sulla lingua, ove, come abbiamo visto, compare la serie comica giovane-anziano-scroccone17, esemplata sul repertorio latino dei personaggi comici.

9Nel commento preparatorio a un corso universitario sull’Andria di Terenzio, Poliziano ricostruisce la storia della commedia antica, di fatto componendo il primo trattato moderno sul teatro. Rifacendosi ai testi più conosciuti, ovvero alla Poetica di Aristotele, al già citato De comoedia di Donato e al De fabula di Evanzio, infine a un anonimo trattato bizantino, l’umanista ripercorre rapidamente l’origine dei generi drammatici, le diverse partiture di un testo, fino alle personae comicae e alla struttura dei cori : l’attenzione nei confronti dei personaggi prevede una ripartizione significativa, che appunto comprende senes, iuvenes, mulieres e servos, secondo la distinzione introdotta dallo stesso Donato, sulla base della fabula palliata. Vero è che tali personaggi, definiti a seconda del loro ruolo sociale, possono facilmente scadere nei più vieti stereotipi : Terenzio, infatti, modificò profondamente tale rigida struttura, portando al centro dei suoi drammi la forza, l’energia, e quindi la propensione al disordine e alla violazione delle regole, dei giovani.

10Al carattere originale della commedia terenziana dedica pure una serie di importanti osservazioni Evanzio : essa presenta trame ricche di motivi e i personaggi stessi non corrispondono ai tipi fissi riscontrabili nella tradizione18. Ad imitazione del commediografo latino, anche Machiavelli segue una prospettiva realistica dal momento che i protagonisti, se obbediscono ai canoni ricavabili dai modelli della commedia antica, introducono, in realtà, innovazioni di grande spessore, come si evince, ad esempio, dal personaggio del frate della Mandragola, erede del « ruffiano mercante di schiave »19, o dalla figura del vecchio Nicomaco della Clizia, che può essere interpretato come una sorta di alter ego dell’autore stesso.

11D’altro canto, sarà bene individuare una differenza fra l’elenco dei personaggi negativi messo a punto nel Dialogo (personaggi dai tratti iperbolici, nei quali gli spettatori possono riconoscere, ingigantiti, i propri vizi) e quello contenuto soprattutto nel prologo del secondo testo teatrale di Machiavelli : le osservazioni esibite nell’opuscolo sulla lingua sembrano essere prive di quell’ironia20 cui invece non rinuncia l’autore della Clizia quando allude alla sua, presunta, costumatezza e alla delusione che proverebbe se, nella recitazione, « ci fusse una qualche disonestà »21. Nel prologo, il discorso machiavelliano è volutamente ambiguo : a fronte di una serie di precetti legati alla commedia in genere, l’interesse dello scrittore sembra puntare sul riso degli spettatori, maliziosamente indotto grazie allo spettacolo degli « accidenti che nello amore naschano »22.

12Nel prosieguo del Dialogo, Niccolò si interroga su quegli elementi strettamente linguistici che contribuiscono a rendere comico un testo. Si sofferma infatti su quei « termini » e su quei « motti » necessari alla riuscita della commedia, capaci di stimolare il ridicolo e di provocare, ancora una volta, il riso :

Ma perché le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termini e motti che faccino questi effetti ; i quali termini, se non sono proprii e patrii, dove sieno soli interi e noti, non muovono e né possono muovere. Donde nasce che uno che non sia toscano non farà mai questa parte bene, perché se vorrà dire i motti della patria sua farà una veste rattoppata, facendo una composizione mezza toscana e mezza forestiera ; e qui si conoscerebbe che lingua egli avessi imparata, s’ella fussi comune o propria. Ma s’e’ non gli vorrà usare, non sappiendo quelli di Toscana, farà una cosa manca e che non arà la perfezione sua (parr. 65-66)23.

13Il linguaggio si deve dunque piegare alle ragioni del genere cui dà voce : se i personaggi risultano provenienti da un mondo tradizionalmente basso, se l’intreccio è modulato sulla beffa spesso perpetrata ai danni di un vecchio stolto, anche la comunicazione fra gli attanti deve essere ispirata al ridicolo, costruita com’è su espressioni e su “modi di dire” divertenti. “Modi di dire” che sono appunto topoi arguti, luoghi ineludibili della perfetta conversazione, come attesta la lunga dissertazione sulle facezie contenuta nel II libro del Cortegiano del Castiglione (a sua volta esemplata sulla celebre VI giornata del Decameron). Di conseguenza, qui Machiavelli sostiene che siano capaci di effetto comico solo le battute pronunciate nella lingua « propri» : tuttavia una commedia di uno scrittore non fiorentino, quindi « mezza toscana e mezza forestiera », risulterà simile a una « veste rattoppata », perché necessitata, da un lato, ad utilizzare l’idioma della tradizione, dall’altro, a ricorrere alle espressioni comiche del luogo d’origine dell’autore. D’altronde, rinunciando ad usare i motti, si rischia di produrre « una cosa manca », ovvero un’opera manchevole di vivacità e piacevolezza, ingredienti fondamentali delle commedie.

14Che il problema della lingua (toscano-fiorentina o italiana) sia strettamente legato alla scrittura comica è poi dimostrato anche da un ulteriore intervento, collocabile accanto a quello machiavelliano24. Mi riferisco alla Risposta all’epistola del Trissino delle lettere nuovamente aggionte alla lingua volgar fiorentina25che, nata a ridosso della celebre proposta di riforma dell’alfabeto italiano firmata dall’autore della Sofonisba (1524), testimonia non solo un’indubbia esigenza di riflessione sulle forme del volgare in quel torno di anni – siamo fra il 1524 e il 1525 –, ma anche l’importante presa di posizione di un intellettuale fiorentino legato alla storia della città26 e a quella del teatro, in quanto autore della tragedia ellenizzante intitolata Tullia. Come Machiavelli, infatti, anche Martelli si sofferma sulle difficoltà degli scrittori non toscani, in special modo quando si misurano con la lingua delle commedie, che deve insieme imitare la realtà e muovere al riso. Più sinteticamente rispetto al ragionamento esposto nel Dialogo, l’autore della Risposta scrive :

Vedasi etiandio alcune commedie di costoro [scil. i Lombardi e gli Italiani in genere che hanno scritto in fiorentino], nelle quali, come hanno ad esprimersi gli comici affetti et gli festivi detti, corettori argutamente delli comuni errori, eglino non usano cotali affetti né cotali detti quali alla Toscana lingua si confanno, ma delli loro ivi seminano, et fanno diversità tale che, recitati, non fanno l’uficio a lloro destinato, di ammonire movendo a piacevole riso gli ascoltanti. Di questo non è cagione altra cosa che l’essere poveri dello nervo istesso della nostra lingua, et il non sapere quella, per questo difetto, né potere, in ogni maniera a sua voglia maneggiare; sì come avverrà a ciascuno delli nostri comici, gli quali, dalla natural richeza d’essa aiutati, havranno per molto facile lo esprimersi in quelle cose che a costoro per la detta povertà seranno impossibili27.

15Come fa giustamente notare la Castellani Pollidori nella sua lunga introduzione al testo di Machiavelli (quello del Martelli è pubblicato in appendice)28, gli argomenti affrontati da entrambi gli scrittori sono i medesimi: la funzione delle commedie, qui legata a quegli « affetti » e a quei « detti » capaci di correggere, con arguzia, gli errori degli uomini, poi la naturalezza dei motti, i quali solo se pronunciati in una lingua in grado di suscitare il riso riescono ad essere strumento di educazione morale, infine la debolezza espressiva dei commediografi non toscani, in quanto « poveri dello nervo istesso della nostra lingua »29. Certo, quella dell’autore della Tullia resta una breve considerazione, a fronte del più complesso ragionamento machiavelliano : tuttavia, essa attesta una presa di posizione che, pur mirando prevalentemente a smantellare l’ardita concezione trissiniana di lingua “italiana” ricavata dal De vulgari eloquentia dantesco, sancisce lo stretto rapporto esistente fra la storia della commedia e quella della conquista di un linguaggio che proprio al comico rivolge una sollecita attenzione.

16Proprio per queste ragioni, Machiavelli si pronuncia naturalmente a favore di un’opzione linguistica che guarda al parlato e che potrebbe facilmente diventare dialetto30 : un testo teatrale è destinato alla comunicazione orale, cui risulta adeguata una lingua viva e non certo fabbricata in laboratorio31. Nel caso della Mandragola, se il fiorentino mimetico dei vari Callimaco, Ligurio, Lucrezia, si colloca all’interno di una colloquiale medietas, il lessico di Nicia oscilla, invece, fra espressioni forbite degne di un pedante e “parlato” fiorito, condito da motti facilmente riconoscibili dall’uditorio e capaci di suscitare il riso proprio a causa del contrasto prodotto fra i due codici32. Peraltro, questa caratterizzazione polarizza l’attenzione degli spettatori proprio sul personaggio del “beffato”, che diviene pure l’erede principale di quella tradizione fiorentina che fa capo a Burchiello e a Pulci.

17Torniamo però al Dialogo, ove, non a caso, Machiavelli cita « uno degli Ariosti di Ferrara »33, proprio quel Ludovico autore dei Suppositi, inizialmente composti in prosa. La celebre commedia ariostesca era stata stampata a Firenze presso Bernardo Zucchetta nel 1510, poi nel 1524 a Roma, presso Minizio Calvo, infine a Venezia, nel 1525, per i tipi di Niccolò Zoppino (per rimanere alle prime edizioni) ; ne era stata allestita una versione teatrale a Ferrara nel 1509, all’interno del palazzo ducale, e poi a Roma, una decina di anni dopo, in Vaticano. Poco è dato di sapere sulla versione che, dei Suppositi, poté leggere (o vedere) Niccolò : egli ne sottolinea comunque gli elementi positivi, dal momento che si tratta di « una gentil compositione » fornita di « uno stilo ornato e ordinato ». Non solo : la favola è ben concepita, tanto è vero che si potrà scorgere, in essa, « un nodo bene accomodato e meglio sciolto »34. Su quest’espressione è bene soffermarsi ancora, soprattutto perché essa rimanda a una formulazione efficace dell’idea di intreccio. Contenuta in un passo della commedia di Jacopo Nardi I due felici rivali35 tale nozione, che deriva dal greco désis, appare direttamente ricavata dalle riflessioni di Evanzio e di Donato sulle commedie di Terenzio, che, come dicevamo, vengono sottoposte a un’attenta analisi relativa ai personaggi, ai tempi del testo (prologo, protasi, epitasi, catastrofe), infine alla risoluzione della storia. Storia cui si riconosce un ruolo sostanziale, come era poi nella più conosciuta tradizione aristotelica36 : centro dell’azione comica, la cosiddetta epitasi, che è il momento di maggior confusione della vicenda (il nodo appunto, l’acme drammatico) destinato a risolversi (sciogliersi) felicemente nella parte finale.

18Sul fronte della lingua, invece, ad Ariosto viene imputato quell’impaccio che in genere anche gli studiosi moderni gli rimproverano: l’esordiente autore della Cassaria, prima, e dei Suppositi, poi, aveva creato un’opera « priva dei quei sali che ricerca una commedia »37, ovvero impossibilitata a suscitare il riso. E questo perché il ferrarese aveva messo a punto una lingua artificiosamente mista, ove il fiorentino (non « propri») si mescolava ad espressioni « patri» destando fastidio all’orecchio. L’autore del Furioso, infatti, non solo aveva utilizzato impropriamente un motto « comune » (di doppioni, pagare con monete d’oro, ovvero fornire una prestazione insufficiente), ma aveva pure impiegato un’espressione « propri» (i bigonzoni), legata a una koiné lessicale che strideva con la lingua stessa della commedia. Ma è il Machiavelli attento alla questione della lingua a parlare, impegnato strenuamente a difendere l’idioma fiorentino contro coloro che « inonestissimi, la chiamano [lingua] italiana »38. Altri saranno i risultati conseguiti dallo scrittore sul fronte della pratica comica, per la quale egli mise a disposizione della scena un indubbio talento drammaturgico.

19Esaminerò, infatti, qui di seguito, le due commedie del Segretario fiorentino, tenendo soprattutto conto del loro rapporto con i testi antichi : se la doppia traduzione dell’Andria39fu una palestra utile a definire un preciso bacino linguistico per i successivi esperimenti comici, la Mandragola e la successiva Clizia attestano, se non altro, l’avvenuta conquista di un lessico, che, pur partendo dal teatro latino, volle misurarsi con le esigenze del pubblico contemporaneo40. D’altro canto, il ricco bagaglio di storie fornite da Plauto e da Terenzio spinge il Machiavelli ad inventare –nel caso del primo testo drammatico – e ad imitare – nel caso del secondo : la beffa di boccacciana memoria resta tema dominante, sebbene sia agevole riconoscere in entrambe le opere il gusto parodico del loro autore, che rappresenta, mascherandone i connotati, la spietata realtà, sociale e politica, del suo tempo41.

    

202. La “Mandragola” o dell’eccesso. L’intreccio della Mandragola si basa su una felice convergenza di antico e moderno42 : da un lato, risulta efficace l’esperienza che il Machiavelli fece come traduttore dell’Andria di Terenzio, e quindi l’acquisizione delle norme fondamentali che regolano la commedia antica, dall’altro, appare evidente l’apporto fornito dalla tradizione tutta fiorentina della beffa, che si rifà alla novellistica, e, naturalmente, al Decameron di Boccaccio, come al modello teatrale imposto dalla Calandra del Bibbiena. La prima commedia machiavelliana, a dispetto dei precedenti latini nei quali il meccanismo comico è tutto fondato sul « viluppo » della terza parte e sullo « scioglimento »43 contenuto nella quarta, si svolge comunque senza particolari intoppi, portando a compimento il disegno concepito da Ligurio per soddisfare insieme il vecchio Nicia desideroso di un figlio, il giovane Callimaco che spasima nei confronti di una bella donna e, infine, la stessa (perplessa) Lucrezia. Ma fermiamoci, solo per una breve parentesi, sulla Calandra. Rappresentata nel 1513, ad Urbino, poi nei primi mesi del 1514 a Roma, la commedia è prodotto unico e geniale di un autore che volle, in essa, mettere in scena una burla ben riuscita : esemplata su un riconoscibile archetipo plautino (i Maenechmi), la commedia di Calandro rinvia pure immediatamente al protagonista delle novelle decameroniane di beffa, come ai primi esperimenti ariosteschi del 1508 (Cassaria) e del 1509 (Suppositi). Rispetto alla linearità della Mandragola machiavelliana, l’intreccio, qui, è più complesso, dal momento che in esso convergono diverse linee tematiche imperniate sull’azione principale del servo Fessenio e sullo scherzo ai danni del personaggio eponimo. Che comunque Machiavelli abbia soprattutto guardato alla commedia del Bibbiena è fatto scontato: non solo rispetto alle situazioni e alla caratterizzazione dei personaggi, ma anche a quello della lingua, ché il Dovizi aveva saputo conferire alla sua operetta « il sapore della tonalità linguistica del toscano parlato »44. Se Ariosto sembra soprattutto rifarsi ai modelli latini, sottoposti a volgarizzamenti e a recuperi teatrali proprio a Ferrara, il letterato toscano aveva saputo sfruttare la vocazione novellistica della tradizione fiorentina, legata al motivo del personaggio beffato, ma anche all’impiego delle battute di spirito e delle facezie. Oggetto di attenzione, lo abbiamo visto, del Dialogo sulla lingua (e, in parte, sulla commedia).

21Sottolineando l’importanza dei motti arguti all’interno delle commedie, Machiavelli assegna al linguaggio un ruolo chiave, anche perché è soprattutto attraverso l’utilizzo del parlato che si realizza a pieno un testo teatrale, destinato, e il Segretario fiorentino lo sapeva bene, alla rappresentazione e al confronto con il pubblico. Tuttavia, a fronte delle sommarie indicazioni normative contenute nel Dialogo, e volte a sottolineare la necessità di rifarsi, per il commediografo, a una lingua viva e quindi non necessariamente toscana per provocare il riso45, il tessuto lessicale della Mandragola ostenta una maggiore capacità mimetica, dal momento che i singoli personaggi appaiono connotati in maniera diversa, proprio nella prospettiva del realismo derivato in prima battuta dal modello del Decameron46. Un primo indizio dell’oltranza drammatica insita nella commedia è riscontrabile proprio nelle diverse modalità espressive dei protagonisti che vanno dalla retorica amorosa (altamente parodica) di Callimaco al pragmatismo scaltro di Ligurio, passando per la caratterizzazione tutta fiorentina di Nicia47, nel cui eloquio confluiscono, da un lato, la vanagloriosa esibizione di un’erudizione superficiale, dall’altro, una ricca serie di riboboli toscani, di vezzi grossolani, di espressioni dialettali. La lingua dell’anziano borghese fiorentino enfatizza quindi una componente grottesca che Machiavelli ritiene sia insita nella rappresentazione comica, specchio deformato di un contesto cittadino, tendente all’immobilismo e all’inerzia, che il Segretario conosce da vicino.

22Torniamo però alla trama della Mandragola. Nelle prime scene, la commedia porta alla ribalta il rapporto instauratosi fra Ligurio, il « parasito » della commedia antica qui trasformato nel regista dell’azione cui sta a cuore solo la buona riuscita dell’impresa, e Callimaco, in tutto simile a quel « giovane impazzato d’amore »48 che Machiavelli menzionerà all’interno del suo opuscolo. E che incarna le ragioni del desiderio e della carne, pronto com’è a morire qualora la sua bramosia non venga soddisfatta. Proprio il personaggio giovane Guadagni, innamorato di Lucrezia per fama e disposto a conquistare la bella fiorentina con ogni mezzo, ancorché illecito, molto può dirci dell’operazione intentata dall’autore del Principe rispetto ai modelli comici latini cui pure egli guarda. Il giovane lamentoso della commedia terenziana diviene infatti un baldanzoso innamorato che utilizza un lessico petrarchesco per dire della propria infermità sentimentale, ma anche per mettere alla berlina chi, quello stesso lessico, usa seriamente. L’evocazione continua della dipartita definitiva, sia quella vagheggiata per porre fine alla sofferenza amorosa, sia quella, finta, del « garzonaccio » di cui Callimaco assume le fattezze, consente allo scrittore di concepire un universo comico ove proprio la Morte viene costantemente esorcizzata. Allontanata, quindi, respinta (come, del resto, è) oltre i confini del genere. Si legga, ad esempio, la seguente battuta contenuta nel I atto :

Meglio è morire che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare il tempo. Ma qui non c’è rimedio, e se io non sono tenuto in speranza da qualche partito, i’ mi morrò in ogni modo. E veggendo d’avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele, nefando. (atto I, scena III)49

23Se la morte viene evocata come possibile rimedio alla sofferenza amorosa, è pure vero che il giovane Guadagni si dice disposto ad ogni violenza pur di soddisfare la sua foga amorosa, secondo una logica feroce poco consona al personaggio dell’innamorato. Ancora nel IV atto, Callimaco attende il responso del colloquio fra Lucrezia e il frate. È in preda a una comprensibile agitazione, documentata attraverso una serie di effetti fisici che risultano essere la parodia della condizione dell’amante tramandata dalla poesia lirica. Sa già che si troverà costretto a scegliere fra due possibilità, « vivere allegro » o, perentoriamente, « morire » :

Quanto più mi è cresciuta la speranza, tanto mi è cresciuto el timore. […] Ma io ci sto poco su, perché da ogni parte mi assalta tanto disio d’essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante de’ pie’ al capo tutto alterare: le gambe triemano, le viscere si commuovano, el cuore mi si sbarba del petto, le braccia s’abbandonono, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, el cervello mi gira. Pure, se io trovassi Ligurio, io arei con chi sfogarmi. Ma ecco che ne viene verso me ratto : el rapporto di costui mi farà o vivere allegro qualche poco o morire affatto. (atto IV, scena I)50

24L’enfasi, l’eccesso, la ridondanza sono tipiche delle modalità espressive di Callimaco, innamorato in preda a una passione dai tratti viscerali ed abnormi. Pure è dato cogliere un’insistenza sospetta, che sembra irridere alla tradizione, ma anche connotare un carattere preciso, una prepotenza irrazionale e quasi cieca, che nulla ha in comune con l’autocompiacimento intellettuale di Ligurio :

ché, se fussi, e’ fia l’ultima notte della vita mia : perché o io mi gitterò in Arno, o io m’impiccherò, o io mi gitterò da quelle finestre, o io mi darò d’un coltello in sull’uscio suo. Qualche cosa farò io perché io non viva più. (atto IV, scena IV)51

25Un altro elemento che sembra portare la Mandragola di Machiavelli oltre i limiti (morali) di una commedia tradizionale è quello legato alla realizzazione della beffa nei confronti di Nicia. Tenendo conto del desiderio spasmodico di avere un erede proprio da parte di quest’ultimo, Ligurio s’ingegna a costruire un finto rimedio che prevede, oltre all’impiego dell’erba denominata mandragola, anche la collaborazione di un frate « mal vissuto »52 e della donna oggetto di concupiscenza da parte di Callimaco. Nel dialogo che Timoteo avrà con Lucrezia nella scena IX del terzo atto, le argomentazioni utilizzate dal religioso per convincere la giovane sposa a prendere parte attiva al progetto, sono improntate a una retorica raffinatissima, che sfrutta finanche i testi sacri (Agostino, Bonaventura, Tommaso) per articolare un ragionamento ineccepibile.

26Lo scopo è, naturalmente, profano: tuttavia l’arte messa in campo dal frate recupera una serie di topoi che procedono secondo una direzione precisa, dalla scelta del bene maggiore rispetto al male minore (Tommaso) fino all’episodio biblico delle figlie di Lot che giustifica l’accoppiamento incestuoso, passando per il primo libro del De civitate Dei – sul corpo che non pecca se la donna non è consenziente alla violenza. Il filo conduttore del discorso, soprattutto per lo spettatore che conosce il vero scopo di Timoteo, è profondamente scabroso ; il tema è blasfemo e, se qui suggerisce il riso proprio per la messa in campo di tanto armamentario teologico, sembra rimandare all’oltranza contenuta nelle ben più serie riflessioni della trattatistica politica machiavelliana. Il « misterio »53 evocato dal frate alla fine del suo discorso rinvia poi alla conclusione della Mandragola54, quando, invece delle nozze finali delle commedie plautine e terenziane, ci troviamo di fronte a un evento enigmatico su cui molto è già stato detto55 e che appare decisamente in linea con le affermazioni del domenicano nell’atto III. Proprio Timoteo, che, a modo suo, celebra pure un rito nuziale fra Callimaco e Lucrezia, con tanto di Nicia benedicente, in ossequio alla regola, officia una cerimonia equivoca, volta a sottolineare la componente paradossale di una vicenda intrisa di inganni che si conclude nel migliore dei modi, ovvero con la soddisfazione di ogni partecipante.

27Epperò, proprio sulla componente blasfema di una commedia che sarà recitata davanti a papa Leone X vorrei tornare a riflettere, perché è appunto, e non a caso, motivo centrale del testo : motivo capace di divertire tutti coloro che colgono gli elementi di una strategia di corruzione in atto (nella scena di Timoteo e Lucrezia), ma anche di proporre un’ideologia di forte impatto che, approfittando delle licenze concesse al genere comico, sembra indicare una nuova strada, perseguita, in maniera diversa e con maggiore aderenza al verbo plautino, anche nella Clizia. In effetti, agli istinti primordiali che guidano i personaggi corrisponde il progetto di una truffa che prevede l’ingravidamento coatto di una donna (fortunatamente consenziente) e la morte di un perdigiorno destinato a prendere su di sé gli effetti dell’erba mandragola. Il pubblico sa cosa c’è dietro la finzione, al contrario di Nicia, che è disposto a rischiare in prima persona pur di ottenere un erede: la beffa assume tratti inquietanti, quegli stessi che Callimaco, vittima d’un istinto cieco, sembra adombrare nella volontà ultima di prendere, se necessitato, un « partito bestiale, crudele, nefando » (supra).

28Sul fronte opposto, Timoteo, frate corrotto e corruttore, persegue solo il suo più veniale interesse (come dimostra pure nel rapido colloquio con una sua parrocchiana): tanto è vero che avrebbe finanche acconsentito a far « sconciare » una giovane donna pur di acquistare in fretta « cotesti danari da potere cominciare a fare qualche bene » (atto III, scena IV)56. Poi, compreso il raggiro atto a testare la disponibilità del religioso da parte di Ligurio, saprà ancora più facilmente conquistarsi il premio pattuito. Grazie a un’interpretazione coscientemente forzata dei testi sacri. La vocazione comica di Machiavelli appare dunque piegata alle esigenze di una rappresentazione che, se si fa realistica e piacevole soprattutto grazie alle espressioni idiomatiche caratterizzanti il parlato di Nicia, sembra portare sulla scena una vicenda cupa, scabrosa, decisamente altra rispetto alle commedie terenziane e plautine57.

   

293. La “Clizia” o dell’autoparodia. È fatto noto che la trama della seconda commedia di Machiavelli, la Clizia, sia esemplata su quella della Casina di Plauto. Quest’ultima risultava a sua volta ricavata da un testo comico greco oggi perduto, i Clerumenoi di Difilo : lo scrittore latino ne dà notizia nel prologo del suo testo, ove appunto annuncia l’argomento della storia fondata sulla gara ingaggiata fra un padre (Lisidamo) e un figlio (Eutinico), entrambi innamorati della stessa fanciulla di oscure origini che destinano ai rispettivi servi. Se dunque la commedia poggia su un plot già noto, vero è che Plauto trasforma con libertà il modello greco, dal momento che dipinge un mondo ove emergono soprattutto maschere surreali e sgraziate, spesso corrispondenti alle figure dei lenoni, dei parassiti, dei servitori privi di scrupoli. Machiavelli recupera a modo suo questa tradizione, ricalcando non solo gli elementi essenziali della trama, ma pure rielaborando o traducendo diverse scene del testo di partenza58.

30Nel prologo della Clizia, lo scrittore fiorentino si adatta all’esordio plautino presentando, in prosa, gli antefatti della vicenda che sarà rappresentata sulla scena ; recuperando il modello terenziano, tuttavia, egli aggiunge una serie di osservazioni che, come in parte abbiamo già visto, si soffermano sulla natura e sugli scopi del genere comico59. Un particolare rilievo assume comunque l’affermazione iniziale di Machiavelli che apre la sua commedia ragionando sulla storia e sul ciclico ripetersi degli eventi :

Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni, che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme a fare le medesime cose che ora60.

31Il testo riprende, in primo luogo, la canzone che lo precede (« Quanto sie lieto il giorno »)61, incentrata sul tema del recupero delle « memorie antiche », oggi nuovamente esibite e glorificate, ma riecheggia pure alcuni celebri luoghi delle opere machiavelliane ove il Segretario fiorentino insiste sul ritorno periodico degli stessi tempi62. Ciononostante, il tono sembra qui suggerire una diversa modalità di lettura, capace di riconoscere un preciso intento parodico nei confronti del Machiavelli politico e quindi di alleggerire il portato di una riflessione filosofica che sembrerebbe rasentare l’assurdo63.

32Quanto all’intreccio, esso appare dunque di fattura più tradizionale rispetto all’operetta precedente : un anziano fiorentino (Nicomaco) si è incapricciato della giovane trovatella Clizia e, per concupirla, non scova altro modo che farla sposare con il servo Pirro, con la promessa di garantirgli la prima notte di nozze. Lo schema essenziale è quello contenuto nel testo plautino: mutati risultano i nomi dei personaggi e talvolta diverse le funzioni (il ruolo di Sofronia, moglie di Nicomaco, ad esempio, viene potenziato). D’altro canto, Cleandro, ovvero il figlio del protagonista, segretamente innamorato di Clizia, risulta figura scialba, nonostante collabori con la madre e combini un altro, possibile matrimonio della ragazza, quello con il fattore Eustachio. Solo l’umiliazione finale di Nicomaco, incappato nell’inganno del servo Siro, sancirà il ritorno all’ordine e il ripristino della morale comune.

33Ma in cosa consiste il meccanismo comico, capace di suscitare il riso ? Naturalmente nel contrasto fra le ambizioni – oscene – di Nicomaco e la disillusione connessa a un imbarazzante incontro notturno, cui fa seguito un malinconico rientro nei ranghi del protagonista. Machiavelli opera tuttavia una sorta di geniale riduzione di quella « festosità fescennina »64 che è connaturata alla commedia di Plauto : il protagonista non è soltanto un innamorato ridicolo, ma si fa interprete, in fondo, di un dramma umano di ben altra levatura. Egli corrisponde a quel « vecchio deriso » già annoverato fra i personaggi nominati dal Dialogo e condannato alla sconfitta. La passione senile del mercante fiorentino viene inesorabilmente messa in discussione attraverso la beffa orchestrata da Sofronia : al cospetto di Cleandro, querulo giovinetto senza nerbo cui, per un ghiribizzo di fortuna, andrà in sposa proprio la fanciulla tanto desiderata, Nicomaco appare l’uomo dell’azione, dell’impresa (ancorché disperata), dell’ingegno destinato a soccombere soltanto di fronte all’evidenza dei fatti. Ancora una volta, il pessimismo machiavelliano passa attraverso lo sberleffo comico : se la Mandragola si faceva portatrice di un lieto fine profano, ma benedetto, anzi purificato, « in santo », la Clizia mira alla ricostituzione dello status quo, al restauro di quella moralità esemplare, ma del tutto negativa, cui corrispondeva la morte definitiva di ogni istinto vitale.

34Proprio in questa seconda commedia machiavelliana, troppe volte considerata come il prodotto tardo di un ingegno ormai ripiegato verso sé stesso, è agevole quindi scorgere un utilizzo funzionale della trama classica, grazie in primo luogo all’introduzione del tema del conflitto fra padre e figlio. Nell’intreccio della Casina, i due protagonisti sono due anziani coniugi, Lisidamo e Cleostrata, su cui sono appunto esemplati i machiavelliani Nicomaco e Sofronia : nella Clizia risulta invece più evidente il confronto fra un attivo ed intrepido settantenne e un inetto fortunato che, alla fine dell’operetta, risulterà vincitore. Alla punizione del marito fedifrago da parte della plautina Cleostrata si sovrappone l’esibita vergogna del mercante fiorentino il quale si ritira nell’ombra, ben consapevole, perché non è uno sciocco, del fallimento del suo progetto.

35Se quindi la Casina è una commedia farsesca fondata su un intreccio scabroso, la Clizia appare come il frutto di un’operazione che, pur prendendo le mosse dall’imitazione diretta di un modello antico, tende ad enfatizzarne alcuni aspetti specifici (il tema dell’inganno, ad esempio, ovvero della beffa ai danni del vecchio innamorato) per dare vita a un universo comico ove trionfa il tornaconto immediato di ciascun personaggio65. L’indagine antropologica – che rappresenta una costante dell’analisi politica machiavelliana – si traduce quindi nella raffigurazione ironica di una serie di caratteri negativi, fra i quali è riconoscibile l’autore stesso. Nicomaco, in effetti, risulta essere una sorta di autoritratto deformato, capace di portare sulla scena alcuni, inequivocabili elementi autobiografici (inscritti, in primo luogo, nel nome del protagonista)66. Il recupero del plot plautino andrà dunque letto nella direzione di una riscrittura volta ad eliminare gli aspetti più vistosamente ridicoli della fonte67 e, insieme, a potenziare i tratti umani dei due protagonisti, Nicomaco, da un lato, e, dall’altro, Sofronia68. Non solo : anche il linguaggio, qui adattato a un contesto fiorentino cui appartengono sostanzialmente tutti i personaggi, si fa spia di un realismo moderato che, pur allontanandosi dal vernacolo caratteristico della parlata del Nicia della Mandragola, fa propria un’attitudine espressiva tendente a riprodurre alcuni tratti visibilmente comici dell’idioma cittadino, considerati necessari alla riuscita stessa del spettacolo. Lo ribadiva lo stesso Machiavelli ancora nel prologo della commedia :

Ma volendo dilettare è necessario muovere gli spettatori a riso, il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo, perché le parole che fanno ridere sono o sciocche, o iniurose o amorose. È necessario pertanto rappresentare persone sciocche, malediche o innamorate. E perciò quelle commedie che sono piene di queste tre qualità di parole sono piene di risa […]69.

36Scritta per un’occasione festiva, la commedia, rappresentata con successo il 13 gennaio del 1525, lascia intravedere, sullo sfondo, una lucidissima riflessione sui comportamenti umani, leggibili attraverso quella teoria del riscontro con i tempi che ha animato molte note pagine del Nostro. Qui, a fronte della felice risoluzione di Mandragola, il protagonista della Clizia ha subito uno scacco ed è costretto ad accettarne le conseguenze, simile, in questo, anche se non fino in fondo, all’autore Niccolò Machiavelli. Se lo scopo è quello dell’istruire dilettando attraverso «persone» non più « sciocche », né « malediche », ma semplicemente « innamorate » (come appunto recita il prologo), allora la Clizia può essere senz’altro considerata come una messa in scena attraverso la quale si confrontano, come spesso nelle lettere, alto e basso, tragico e comico, pubblico e privato, perché la commedia è sì specchio di vita, ma anche riflesso amaro delle vicende, personali e politiche, contemporanee.